Proprio ieri mi hanno suggerito un articolo della Gazzetta dello Sport a firma Mabel Bocchi, chi ha esperienza di basket sa benissimo di chi stiamo parlando, che ho letto avidamente. Argomento scottante, il drop out, ovvero “l‘abbandono della disciplina praticata“, i nostri ragazzi che, ad un certo punto, lasciano il loro sport.
La Bocchi ci indica i 14 anni come età nella quale il “drop out” fa “proselitismo”, proprio l’età nella quale i giovani avrebbero più bisogno della attività sportiva, ma soprattutto indica le motivazioni di questo fenomeno, tutte risapute ma che brutto vederle una in fila all’altra: “L’agonismo esasperato fin da giovanissimi. Il risultato a tutti i costi. L’illusione preclusa di divenire dei campioni. Nuovi interessi. Genitori, in genere ambiente esterno, troppo esigenti e pressanti. Il venire meno di divertimento e motivazioni“.
Sanare questa situazione si può, dice la cestista-giornalista, cercando ed esaltando le motivazioni che hanno portato il ragazzo alla disciplina sportiva che sono : “il divertimento, la gioia di giocare, di fare parte di un gruppo, conoscere nuovi amici”. Come si fa? Lavorare sulla prestazione e non sul risultato.
Inevitabilmente ho pensato a questo problema ed al nostro sport, ai racconti a volte semi-disperati di un amico che segue con grande passione come dirigente una Under16 nella quale la sua prima attività pare essere il “tiradentro”, pratica quasi assurda vista da fuori perchè ci si aspetterebbe un giovane facesse invece a gomitate per esserci. Ho pensato ai corsi per allenatori-educatori di livello base o primo livello che, nel nostro sport, contemplano già una buona dose di prevenzione al drop-out.
Ho ragionato sul rugby pensando quando possa essere determinante la vecchia ma più che mai sana logica del “gioco per il gioco”, tipica del nostro mondo, o quella di saper fare del singolo incontro un obiettivo a se, il saper esaltare una prestazione e non solo il risultato, tutte cose che noi del rugby in teoria conosciamo bene. Ho dovuto quasi ricollocare Mallett e diversi coach del rugby tricolore trascorso che, con la logica delle sconfitte onorevoli, hanno reso difficili gesti di esaltazione da parte dei nostri ragazzi. Poi la tradizione e lo spirito del rugby stesso in teoria dovrebbero reggere il colpo.
Insomma l’antidoto nel rugby italiano pare esserci tutto. Capita però che, alcune volte, quando ci si trova ai bordi di un campo durante un torneo, un match di Under14 o Under16, di minirugby, si vedano molte stupidaggini, anche fra gli allenatori-.educatori, che sono le più gravi. E’ troppo facile però farne solo i censori. C’è un mondo li fuori che spinge “contro” ed è davvero forte.
In un paese in cui la Scuola ha di fatto eliminato le ore di pratica sportiva e la sua cultura, le federazioni si misurano a budget invece che a numero di praticanti, i grandi media propongono “miti” vestiti da sportivi, uomini e donne immagine invece di gesti atletici, è davvero dura tener saldamente testa al drop out.
La Gazzetta dello Sport però, oltre a pubblicare ottimi pezzi come quello della Bocchi, è sempre in tempo per farsi un bell’esame di coscienza.