In questo traffico complicato e, a tratti, anche pericoloso, che il nostro rugby union sta percorrendo verso la sua spettacolarizzazione, il jet set che governa questa transizione si sente di dover abbattere alcune “barriere” (non solo tecniche, anche consuetudini dentro e fuori dallo spogliatoio, atteggiamenti in campo e via così). La prima complicazione di questa operazione è quella di dividere il mondo in “innovatori” e “passatisti“. Chi non è d’accordo con certe novità si becca del retrogrado (ma recente lo è stato anche un certo Owens).
Nel raccontarvi molto brevemente e, volutamente, senza ribollitura tecnica, la cosa di oggi, vorrei evitare la distinzione di cui sopra, piacerebbe si guardasse questa facezia, tale io stesso penso che sia quello che sto raccontando, con un po’ più di leggerezza. Il significato infatti è solo quello di far ricordare a tutti cosa sia il rugby. Una delle cose che infatti io credo sia immodificabile è che: il rugby si gioca in quindici.
Fra i tanti nuovi ingressi, ma è ben oltre un decennio che accade, nel nostro panorama sportivo c’è la premiazione per “la meta più “qualcosa” del..“ . Del Mondiale o del Sei Nazioni, delle Under20 o del Torneo per giovanotti non cambia nulla, il concetto chiave è quello della premiazione della meta più bella, più interessante, più tecnica e via così, metteteci l’aggettivo qualificativo che volete.
Fino al fatto che questi premi esistano potrebbe andare tutto bene, la cosa diventa perniciosa o almeno inappropriata quando per quella meta non viene premiata la squadra ma una singola persona: per di più la persona che tocca la palla oltre la fatidica linea. Credo che questo no, questo non va.
Vi sfido a guardare una meta qualsiasi e non ravvisarvi al suo interno un minimo di coralità, un intervento determinante da parte di chi magari non l’ha posata a terra, un virtuosismo fatto di un assist o di un assorbimento degli avversari che libera il marcatore, del resto un carrettino è ben fatto da un intero reparto in campo ma la sua meta la segna quasi sempre il tallonatore. Si potrebbero citare centinaia di casistiche che possono dimostrare ampliamente che colui che segna la meta è sempre e solo un rifinitore del gioco del suo team. E’ talmente raro non sia così che lo si può affermare tranquillamente.
Del resto quanto sopra è l’essenza stessa del nostro sport, uno sport di combattimento e soprattutto di “squadra” nel significato più completo e totale di questa ultima parola. Il rugby si gioca in quindici, una frase di cui ci siamo sempre fatti vanto, ritenuta una base inseparabile fra il nostro sport ed il suo stesso stile di essere. Per chi lo gioca e per chi lo guarda.
Ci sono altri sport dove il “goleador” ha invece un senso, da noi è invece profondamente diverso, scimmiottare le movenze e le usanze della pallatonda non migliora il nostro sport. In questo caso un po’ invece lo allontana dal suo vero significato.
Non si dovrebbe dare tanta enfasi ed addirittura premi personali per una meta solo perchè schiacciata oltre la linea, non almeno in quanto autore della stessa, al massimo si potrebbe dire: come ottimo rifinitore.
Il rugby nella sua evoluzione, nel suo percorso di innovazione che si diceva all’inizio, dovrebbe fare lo sforzo di inventarsi titoli e ambiti di riconoscimento in linea con la sua specifica attività, identificare performance e gesti tipici del nostro sport e passare a premiare propri quelli. Anche questa sarebbe una bellissima innovazione, ci darebbe modo di distinguerci (cosa fortissima in termini di marketing) e di conseguire il nostro stile sempre e comunque.
Forza rugby.