Quando l’Azzurro non gioca praticamente metà del rugby raccontato via web in Italia è rugby “estero”: Francia, Inghilterra, mondi del Pacifico gli approdi preferiti, ma fa notizia anche un rugby Seven asiatico piuttosto che una sorpresa in Rugby Europe. Una fetta ampiamente maggioritaria di quello che rimane è quasi tutte per le “franchigie” ed altri derivati azzurri, persino la rendicontazione delle vittorie e delle sconfitte dei giocatori azzurri nei loro club esteri di origine ha uno spazio. Quello che resta è per il rugby italiano
La stragrande maggioranza del rugby raccontato via “carta” è rugby locale, dalla piazza di Treviso a quella di Parma ma anche e soprattutto tutte le cronache di categoria inferiore che ci porta a dire che, in pratica, c’è tanto rugby italiano. Qui semmai il problema è altro: la presenza su carta è molto bassa, spazi molto piccoli.
Un buon viatico da sport minore, dirà qualcuno. Ma non può essere così, il nostro sport, secondo certe sirene, in questi ultimi dodici anni è cresciuto moltissimo ma il livello “media” è andato invece sotto quello di una ventina di anni fa: perchè, in realtà, manca il rugby italiano. Manca quel rugby che portava le migliaia di persone negli stadi partendo da Catania arrivando a Milano.
Qaundo l’Azzurro non gioca (ovvero quando la FIR non sa più che “azzurro” inventarsi per fare presenza) si vede bene il “buco” (che c’è sempre, viene solo nascosto) perchè anche le figure italiane più note del rugby nei loro social parlano di rugby “estero”, commentano le imprese nei campionati in Nuova Zelanda o in Premiership, fino al il fischio errato nel francese ProD2; per parlare di rugby made in Italy parlano di URC, ed allora è un botto di sudafricani e irlandesi, di posizioni di questo e di quello rispetto al proprio Head Coach scozzese o gallese. Il rugby italiano “non fa bello” ed i primi a consegnargli l’oblio sono proprio alcuni addetti ai lavori….italiani.
Questa è la situazione di un rugby nazionale che non ha “fiato”, che non ha spazio, che ha visto diminuire la propria presenza media negli ultimi anni, oltre gli Azzurri il buio.
Per il resto dove ci siamo è perchè paghiamo per esserci non perchè siamo interessanti. Questo vale anche per le franchigie, basta ricordare della Benetton che gioca una partita di cartello in Challenge Cup e nessun media nazionale si offre per trasmetterla. Sulle Zebre che volete che si dica, c’è sempre quella questione sul comportamento da tenere con la Croce Rossa.
La enorme macchina comunicativa della FIR cerca forse di sopperire a questa asfissia che tocca interi e vastissimi territori, non ce la fa anche perchè,spesso manca anche il rugby in tanti territori, oppure è perchè è lei stessa “ostacolo” per la crescita di media specializzati.
Però tutto quel chiacchierare di rugby estero, quella continua profusione di immagini e considerazioni, quei Coach che raccontano e fanno clip sull’australiano di League piuttosto che sul fischietto di Cardiff, tutto questo dimostra che c’è fame di rugby in Italia, tanta. E se ci fosse un bel po’ di rugby italiano, certo gestito ma anche raccontato, narrato, proposto nel modo gratificante con il quale a volte ci aggrappiamo a certe ciofeche internazionali, lo spazio media piano piano se lo prenderebbe.
Però oggi in tanti ambienti anche molto “qualificati” non si capisce che bisogna partire dalla comunicazione, è questa che aiuta a crescere, i tempi sono cambiati, molto, la comunicazione non è più un “ex-post” ma un “ex-ante”.