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AZZURRI

ITALIA SENZA SPERANZA CON LA LOGICA DEI PICCOLI NUMERI

Adesso è toccato a Gonzalo Quesada uscire dal campo della sconfitta, onorevolissima, con l’Irlanda, e dire una cosa già sentita dai predecessori molte volte, un clique che si ripropone da tempo: tutti ci dicono che ci manca davvero poco per essere “super”. Dopo tutte queste ripetizioni invece, da qui si è capito che tutto quell’ottimismo angosciato e deluso vale solo per tifosi e telecamere. La realtà è che quelle frasi, tutte dette dai nostri Head Coach  dopo contesti simili, dimostrano come il nostro rugby non si schiodi da lì, non faccia un solo passo avanti.

La sconfitta con la Irlanda, frutto di troppi infortuni senza ricambi adeguati alle spalle, di una indisciplina da ultimi della classe, una cosa che a certi livelli non dovrebbe nemmeno vedersi, porta Quesada a dirci che “… quasi quasi….” .  Invece fa chiaramente vedere che il movimento ovale italiano per come è strutturato più di così non può.

Quelle dei lanci di speranza da parte dei nostri Head Coach sono cose che, tipicamente, accadono al Sei Nazioni, perchè lì c’è vera competizione ed ansia da prestazione, perchè lì c’è lo spettro del cucchiaio di legno, il giudizio degli altri sempre in agguato e poi c’è la Georgia…. ci siamo capiti. I Test Match sono acqua fresca.

Andiamo al sodo, diciamocelo, sono moltissimi anni che giriamo intorno allo stesso paletto.

Arriviamo al Sei Nazioni, mettiamo in campo gente in gamba, alcuni talenti di altissimo livello, quest’anno sono toccate a Menoncello, Fischetti e Zuliani le migliori citazioni ma gli anni scorsi c’erano altri e così andrà avanti, quindi mettiamo giù un paio di risultati “interessanti”, fra i quali ci capita anche la sconftitta onorevole di turno,  così copriamo così un paio di disfatte (quest’anno Francia ed Inghilterra ci hanno macinato) ed il Coach dice che se lavoriamo sodo faremo meglio e saliremo. Un loop infinito. Che va interrotto. 

Perchè questa sconfitta con l’Irlanda è stata bella, ci fa venire rabbia, ci fa sperare, ma, a mente fredda e con uno sguardo un po’ più disincantato, fa emergere tutte le mancanze ed i limiti del nostro movimento azzurro, e sono ormai sempre le stesse cose da troppi anni ormai.

Senza una strutturazione vera del rugby in Italia, rimarremo sempre lì, vittime consapevoli del minutaggio che in Francia ed Inghilterra fanno fare a metà della nostra Nazionale, vittime consapevoli delle ambizioni e dei continui alti (rari)  e bassi (tantissimi) delle due finte-franchigie, una delle quali, le Zebre, oggi osannata per una bella serie positiva di vittorie in campionato in periodo Sei Nazioni, ha una lunga storia tutta da dimenticare.

Questa sconfitta con l’Irlanda ha il suono lamentoso di due nenie, la prima comprensibile e giustificata è quella dei nostri Head Coach azzurri che nel tempo, arrivati tutti a questo punto, ci hanno raccontano del “…quasi quasi”, la seconda è quella di tifosi, commentatori ed addetti ai lavori che chiedono di “fare qualcosa”.

Però, negli ultimi quindici anni, più che rimestare le accademie e chiamare stranieri con nonni italiani a vestire la maglia azzurra la nostra Direzione Tecnica federale di Franco Ascione e Daniele Pacini, tutt’ora in sella ed in gran spolvero, non ha praticamente fatto nulla.

Fra le tante cose, diciamolo, ci manca un campionato,  dove c’è il rugby cresce, ma ci mancano anche e soprattuto dirigenti in grado di far crescere il rugby, ci manca una selezione tecnica reale fatta su grandi numeri (da sostituire al mammismo raccomandatorio di certi nostri ambienti), ma soprattutto e prima di tutto ci manca una crescita reale di tutto il nostro rugby. Il nostro mondo ovale è fermo a venti anni fa e solo una porzione piccolissima (Treviso e pochissimo in più) hanno fatto un passo avanti in termini tecnici ed organizzativi.

Siamo attaccati alla logica dei piccoli numeri ed al  fatto che “la base non serve”, per cui si pensa di poter crescere con solo due Società sportive (una addirittura federale) che giocano in un campionato (URC) multi-nations duro e stancante che si auto-misura in fatturato invece che in risultati tecnici, settanta giocatori praticanti in Italia, una ventina all’estero, solo una dozzina di dirigenti e tecnici davvero preparati per buona parte stranieri, gente che passa e va, una batteria di scout che va in giro per il mondo a recuperare talenti altrui con cognomi quasi italiani e discendenze varie nello stivale. Questo è il nostro rugby di vertice.

Troppo poco per vincere davvero. Perchè con l’Irlanda si è perso per coperta corta e mentalità insufficiente e queste non sono novità o dati statistici ma dimostrazioni, vecchie e ormai consunte, che senza una vera strutturazione ed estensione nazionale del nostro rugby, possiamo solo restare fermi al palo a girare girare girare….. nel loop infinito.

 

 

 

 

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