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AFFARI ESTERI

IL PARALLELO GALLESE CHE VALE PER TUTTI

Accade moltissimo in Galles, l’apparenza magari è quella di una Nation allo sbando, la realtà invece è quella di una terra dove il rugby è talmente forte da riuscire ad esserne totalmente anche la cartina di tornasole, per tutti. In questi ultimi giorni si sono susseguite da quelle parti un paio di notizie che, messe una a fianco dell’altra rappresentano bene la situazione e le contraddizioni di tutto il rugby moderno. Guardiamoci dentro.

Anche Cory Hill, prestigiosa seconda linea dei dragoni, saluta la maglia rossa del suo Galles e rinuncia ai Mondiali di Francia dicendo:” Sono dispiaciuto nel lasciare la squadra, ma è emersa un’opportunità professionale e ho bisogno di coglierla per la mia famiglia”. In pratica Hill ha accettato l’ingaggio in un club estero che lo vuole però disponibile anche durante i Mondiali ed allora, con i tempi che corrono, tanti saluti.

La cosa però non è nuova, Ross Moriarty, terza linea con una quarantina di caps in Nazionale gallese, aveva già chiesto qualche settimana fa di non essere preso in considerazione da Gatland per i Mondiali di Francia dopo aver firmato per la squadra francese Brive per la prossima stagione. La motivazione? La stessa di Hill.

A questo tourbillon vanno aggiunti i recenti ritiri dalle convocazioni gallesi di molti altri, tutti prestigiosi e “pesanti” per la economia di squadra: Alun Wyn Jones, Justin Tipuric e Rhys Webb.

Ma cosa accade in Galles? In realtà, si diceva, quello che accade nelle terre fra Cardiff e Colwin Bay, non è altro che lo specchio di un rugby generalmente in difficoltà, la questione è soprattutto economica, il parametro è la sua insostenibilità, il tema sono gli stipendi dei giocatori ovvero i tagli che la Welsh Rugby Union ha destinato loro sia a livello di franchigie che di Nazionale.

Perchè alla notizia di Cory Hill va messa in parallelo quella di Nigel Walker, che della Federazione gallese è il CEO, e delle sue dichiarazioni proprio di questi giorni.

Ha detto Walker su stipendi e giocatori:” Nessuno di noi in Europa è immune dalle sfide. Il gioco deve essere reimpostato, i modelli di finanziamento devono cambiare e gli stipendi pagati ai giocatori devono essere rivisti. Molti diranno perché i giocatori dovrebbero sopportare il peso di tutto questo. Non è colpa dei giocatori, semplicemente gli amministratori, se posso usare questa espressione, si sono fatti prendere la mano e i salari sono andati fuori controllo“.

Poi ha aggiunto, riferendosi chiaramente alla logica investimento/risultato:” I soldi sono importanti, la quantità di denaro che si può spendere per la propria squadra è importante, ma questo non garantisce necessariamente il successo. Le nostre regioni (ndr: le franchigie gallesi di URC) sono state ben finanziate per quanto riguarda le dimensioni delle squadre, sicuramente negli ultimi due o tre anni, ma questo non ha garantito il successo. Ecco perché lavoreremo fianco a fianco, il sindacato e le regioni, per trovare una formula che ci dia maggiori possibilità di successo“.

Il finale che Walker riserva è trascinante e fa direttamente riferimento alla bancarotta di ben tre team inglesi della Premiership nel giro di poco più di sei mesi appena alle nostre spalle, ultimi i London Irish dopo Wasps e Worcester, dice il CEO di WRU:” Sono stato criticato per il reset, ma se non lo facciamo ci troveremo nella situazione che hanno sperimentato nel rugby inglese in questa stagione“. Ovvero “falliti”, tanto per essere chiari.

La proiezione economica del nostro rugby internazionale ci comprende tutti, non è un mistero che in zona All Blacks da questo punto di vista sono diversi anni che giocano a raschiare il barile (vi ricordate la questione della cessione dei diritti commerciali della magica felce?) e così da molte altre parti. Il rugby francese se la gioca alla grande per ora ma si sentono eccome i primi scricchiolii. Cosa dire invece del drastico contenimento dei costi (oltre il 20%) attuato recentemente dalla inglese RFU?

I vari Board internazionali del Rugby Union, da quelli delle Federazioni a quelli dei vari prestigiosi Tornei internazionali per Nation passando per i gestori delle coppe europee, hanno fino ad oggi puntato sulla estensione delle attività: più Nation, più partite, più club, più tornei e via così. Tutto per fare cassa. Ma i giocatori (sempre più logorati) sono un po’ sempre gli stessi e tirare la corda non ha fatto bene a nessuno. Comunque i risultati economici sono stati evidentemente non sufficienti. 

La soluzione gallese però è una linea di “stop”, è l’ammissione che gli spazi economici per tutto questo bailamme non ci sono, che la sostenibilità è scarsa, che il gioco non vale la candela. E se lo dicono i gallesi e lo sommiamo alle questioni inglesi, vuol dire che coloro che non sono in grado di far raccogliere di più, che sono visibilmente ” a tappo”, sono tutti “engagement” che ci riguardano anche direttamente: URC, EPCR, Sei Nazioni.

Uno sguardo va dato ad URC che ha aperto ai team sudafricani in questi ultimi anni proprio per rilanciare il profitto delle franchigie delle Nation europee, pare non sia bastato.

Insomma la mossa gallese è un fattore di realismo, abbiamo un rugby, prima che salti per aria o che diventi semplice un Circo di alto livello (“venite gente venite”) è il caso di riorganizzarlo per quello che dà. Fondo CVC o no. Si prospetta nel breve-medio periodo una nuova transizione del nostro rugby internazionale dove la qualità tornerà ad essere rara e sarà ben pagata. Il resto sarà comunque interessante ma sarà il resto.

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