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FORMAZIONE

METTERE AL CENTRO I CLUB: IL MODELLO E’ LA RFU

Una delle cose che maggiormente mi hanno impressionato negli ultimi mesi è stato il sistema di “contratti ibridi” realizzato dalla RFU inglese accompagnato dal nuovo protocollo del Professional Game Agreement che regola i rapporti fra i maggiori club (non solo Premiership ma anche il secondo campionato ed i vivai delle accademia di club) con la Federazione (la RFU appunto).

Un accordo complesso che da un lato tende a mantenere i grandi campioni sul territorio ed evitare la fuga verso la Francia (attenzione che ora c’è anche il Giappone) con un cospicuo apporto economico RFU agli stipendi dei maggiori top player (minimo 150.00 sterline anno) e dall’altro aiuta, sviluppa e coordina, le attività giovanili presso i club e ne garantisce la loro crescita dentro la filiera della Società di riferimento.

In pratica la RFU si è mossa ancora una volta nella direzione che le è tipica, una forma di sussidiarietà del rugby: ognuno faccia quello che sa meglio fare. La Federazione inglese si occupa dei team Nazionali ed i club invece si occupano anche del “volume” di gioco e delle nuove promesse (monitorate comunque da RFU) tramite i propri vivai e le conseguenti proprie Accademie.

Il nuovo accordo ha un valore di 200 milioni di sterline (ca 232 milioni di euro) che la RFU verserà ai Club spalmati nei prossimi otto anni, ma il suo valore può variare a seconda del successo delle attività della Federazione che darebbe luogo ad una diversa “ripartizione dei ricavi del rugby”.  Oltre al fatto che fra club e Federazione si stabilisce così il comune obiettivo di far vincere il rugby inglese (anche ben stimolato a quanto pare) c’è poi che la Federazione non si comporta come fosse una entità a se stante, sola ed esclusiva,  la RFU ha invece un comportamento positivo, si muove per quello che in effetti è: espressione dei club. Con loro condivide i suoi successi.

La Federazione inglese ha inoltre aperto ad un livello superiore di “squadre d’elite” (sistema EPS : Elite Player Squad) che passano da 33 a 45, maggior numero di accademie (14) e maggiori contributi per loro, per i team poi una apertura anche al numero di giocatori che queste possono tenere (fatto salvo il tetto salariale che però ha il contributo RFU per i Top).

Oltre a questo anche un  nuovo sistema di giornate di riposo per i giocatori (almeno 10 settimane in estate prima dell’inizio del campionato e varie altre pause) oltre a nuove iniziative per il welfare. Il calendario della Nazionale e delle sue attività laterali, i numeri dei giocatori coinvolti, tutto è concordato a monte. E poi via così in un crescendo di collaborazione che arriva fino all’accordo con la rappresentanza dei giocatori per promuovere il loro sviluppo personale e l’istruzione (si pensa al loro post carriera sportiva).

Mark McCafferty, Chief Executive Officer della Premiership Rugby, ha dichiarato: “Il successo per l’Inghilterra e per i club dipende da un’efficace collaborazione tra la RFU e la Premiership Rugby su molti livelli…”

Certo, per costruire un modello di questo tipo ci vogliono diversi anni, ci vuole un mondo ovale che viaggi nella stessa direzione, una Federazione che si senta espressione dei club e non loro concorrente. Però è questo modello inglese, quello che rappresenta nel mondo il significato reale delle parole “mettere al centro i club”. Il resto sono bugie e di questo, ahimè, ormai ce ne siamo fatti una ragione.

 

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